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Minari: la nostra recensione

Il film è nelle (poche) sale cinematografiche aperte dal 26 aprile e su Sky dal 5 maggio

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La storia del sogno americano vista finalmente da una prospettiva differente, rispetto a quella ‘tradizionale’: la famiglia Yi del film Minari rispecchia la vita di tante famiglie, di tante persone, con il bisogno forte di sentirsi a casa in un Paese che non è quello di origine. Jacob (Steven Yeun), insieme alla moglie, ai due figli e alla suocera, è un immigrato di origine coreana che decide di lasciare la California e cercare fortuna in Arkansas. L’obiettivo è quello di vivere bene, senza problemi di denaro, creando qualcosa di proprio, anziché passare l’intera esistenza a svolgere un lavoro ripetitivo e alienante. Nel caso della famiglia di Jacob il sogno non è però condiviso da tutti; soprattutto sua moglie, si aggrappa  a quella zona di comfort rappresentata dall’appartenenza alla cultura coreana: per questo motivo è disposta a viaggiare anche per otto ore in auto, pur di andare a trovare cibi tipici del proprio Paese e ha paura di mettersi in gioco modificando abitudini e modi di vivere. Uno degli aspetti che più colpisce in questo film, candidato a sei Oscar, è proprio questo conflitto interiore dei protagonisti, che si sentono la maggior parte del tempo disadattati in ogni contesto. Ed ecco che questa famiglia diventa la nostra, perché ognuno di noi si può identificare con la difficoltà di far fronte all’esperienza del dover dimostrare quanto vale per andare avanti, specialmente quando si è stranieri in un Paese in cui chi porta in dono la ricchezza di un’altra cultura è visto come il diverso, da tenere a distanza.

La potenza di questo film, oltre che nella regia, sta anche nel messaggio che offre: come il minari, l’erba che cresce spontanea ma è così preziosa e non ha bisogno di una cura maniacale, così la fortuna dell’uomo si basa certamente sul lavoro e l’impegno, ma ha bisogno soprattutto di qualcosa che non è materiale, che non è spiegabile soltanto con la ragione, per crescere. Un messaggio forte, autobiografico, quello del regista Lee Isaac Chung, che avrebbe meritato qualche riconoscimento in più dall’Academy. Di simbolismo è impregnata l’intera pellicola: il lavoro odiato da Jacob, quello di controllare il sesso dei pulcini e scartare i maschi perché ‘non servono’, rappresenta il suo costante incubo di essere inutile alla società; una società, quella attuale, in cui si costruicono muri per tenere lontano gli stranieri.

Gli attori meritano una menzione a parte: a Youn Yuh-Jung, che interpreta il personaggio della nonna (decisivo nella svolta della trama) è andato l’Oscar come Migliore Attrice Non Protagonista, ma questo premio lo avrebbero meritato tutti: per aver raccontato con le parole, ma soprattutto con gli sguardi e con la mimica, emozioni forti che arrivano dritte al cuore.

Il film è nelle (poche) sale cinematografiche aperte dal 26 aprile e su Sky dal 5 maggio, distribuito da Academy Two. Da vedere in lingua originale, per entrare ancora più in empatia con i protagonisti e per coglierne appieno ogni sfumatura.

Ecco il trailer:

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